Print Friendly, PDF & Email

blogmicromega

“Quando la Fiat parlava argentino” e l’ambiguità radicale del peronismo

di Carlo Formenti

Recensendo su queste stesse pagine un lavoro di Manolo Morlacchi sulla vita di Roby Santucho, leader storico del PRT (Partito Rivoluzionario dei Lavoratori), avevo evidenziato un paradosso: le sinistre argentine ancora oggi rispettano la memoria di Peron, un uomo che non ha mai nascosto il suo viscerale anticomunismo. Morlacchi spiega la contraddizione ricordando come Peron si sia presentato come il fondatore di una “terza via” fra capitalismo e socialismo, nazionalizzando banche e servizi pubblici, promuovendo politiche sociali e riconoscendo il diritto di organizzazione sindacale e di sciopero (le centrali sindacali peroniste furono il suo maggior canale di consenso). Un riformismo dall’alto sintetizzato dal suo famoso consiglio ai padroni: meglio rinunciare al 30% della vostra ricchezza che perderla tutta. Questa ambiguità si riflette nelle due anime del peronismo: una sinistra che ha assunto tratti esplicitamente socialisti, e una destra che si è resa complice dei crimini della dittatura militare.

Camillo Robertini, un giovane storico italiano che lavora all’Universidad Nacional de La Plata, pubblica ora un altro libro (“Quando la Fiat parlava argentino”, Le Monnier) che consente di approfondire il tema, anche se l’argomento centrale del suo lavoro è un altro, cioè una ricerca sull’insediamento della Fiat in Argentina, con particolare riferimento allo stabilimento di Palomar, nelle immediate vicinanze di Buenos Aires, inaugurato nel 1964 e ceduto alla Peugeot all’inizio degli anni 80. Robertini ha raccolto una enorme mole di materiali, sia sul piano documentale (raccolte della rivista aziendale, articoli di giornale, mappe, atti burocratici e giudiziari, ecc.), sia sul piano delle testimonianze, intervistando molti operai che hanno vissuto quel periodo storico, con particolare attenzione agli anni del terrore. Ne emerge un quadro complesso e, per certi versi, spiazzante. Non potendo descrivere tutti i temi trattati nel libro mi limito qui a riassumerne quattro: 1) il rapporto fra la Fiat e lo stato argentino; 2) il rapporto fra azienda e lavoratori; 3) quello fra avanguardie politicizzate e massa operaia; 4) le memorie - piene di reticenze e autogiustificazioni - degli anni del terrore.

L’insediamento della Fiat in Argentina fu “accompagnato” dallo stato italiano (Andreotti svolse un ruolo di primo piano) e da altri poteri paralleli (come la P2 di Licio Gelli) e avvenne a precise condizioni: lo stato argentino si impegnava a proteggere la Fiat dalla concorrenza di altre imprese multinazionali e a garantirne la “sicurezza” (cioè a difenderla dalle infiltrazioni del sindacalismo radicale e dei gruppi “sovversivi”). A tal fine l’azienda ha potuto contare sui servigi della polizia e dell’intelligence argentina, ma soprattutto, come vedremo fra poco, ha potuto contare sul potente sindacato peronista di destra (la UOM), che controllava la maggioranza della forza lavoro e garantiva sia la pace sociale che il rispetto dei ritmi di lavoro e degli obiettivi produttivi imposti dalla direzione e dai capi reparto.

Veniamo al secondo punto. La Fiat ha esportato in Argentina la filosofia “vallettiana” che ne ispirò le politiche negli anni Cinquanta: dura disciplina e rigida organizzazione gerarchica. A gestire con mano di ferro questa politica un quadro manageriale in cui figuravano (arruolati da Aurelio Peccei, che pure aveva un passato da partigiano!) vari esponenti della diaspora fascista, fuorusciti dall’Italia per non finire ammazzati o in galera. La durezza del regime di fabbrica era compensata da politiche paternaliste: welfare aziendale (assistenza sanitaria, colonie per i figli, ecc.), club aziendali con le più svariate attività ricreative e sportive (decine di squadre di calcio che disputavano un campionato interno fra reparti) aiuti alle famiglie e, last but not least, livelli salariali più elevati di quelli praticati dalle altre imprese. All’ombra di questa comunità “patriarcale”, nasce il Barrio Fiat, un quartiere autocostruito in larga misura dagli stessi operai nelle immediate vicinanze della fabbrica. Ma l’interesse del lavoro di Robertini consiste soprattutto nel mettere in luce come queste politiche ottengano il consenso quasi assoluto dei dipendenti.

Dalle interviste emerge un’antropologia analoga a quella dell’operaio di mestiere italiano prima degli anni Sessanta: orgoglio professionale, etica del lavoro, solidarietà fra compagni di lavoro che si estende fuori dall’officina, ecc. Con la differenza che, in Italia, questo strato di classe si ispirava ai valori del PCI e sognava di assumere il controllo della fabbrica espropriando il padrone, in Argentina (o meglio nella Fiat di Palomar, perché la storia di quella di Cordoba è assai più simile a quella del nostro ’69) siamo viceversa di fronte alla pressoché totale accettazione delle ragioni della proprietà, un’accettazione che s’incarna nei valori del peronismo di destra come il “lavorismo” (solo chi sgobba è degno di rispetto), il machismo, il nazionalismo (la Fiat è buona perché contribuisce allo sviluppo nazionale) e il rispetto per chi offre lavoro e chance di mobilità sociale. Insomma una comunità operaia solidale ma “per”, non “contro”.

È quindi facile dedurre come sono andate le cose in merito al rapporto fra massa operaia e avanguardie sindacali e politiche. Fino al golpe degli anni Settanta è stata la stessa destra sindacale ad assumere in prima persona il ruolo di reprimere ogni velleità conflittuale, anche organizzando squadre punitive che aggrediscono i “sovversivi” dentro e fuori dalla fabbrica. Quando il pallino passa nelle mani dei militari le cose cambiano, perché anche i sindacalisti di destra vengono esautorati e dalla repressione si passa ai sequestri, alle uccisioni e alle torture. Il tutto senza che la massa offra la minima resistenza. Al contrario: fioccano le delazioni contro chi è sospettato di non appartenere alla maggioranza degli “onesti e buoni lavoratori” e, quando la guerriglia colpisce a morte anche diversi dirigenti aziendali (il caso più noto fu quello di Sallustro), l’isolamento dei reprobi si fa ancora più totale.

Ancora più spiazzanti, rispetto a un immaginario che proietta sull’intera classe operaia argentina (e non solo su quella del Nord Ovest del Paese) gli ideali antifascisti di quella nostrana, sono le testimonianze sugli anni del terrore raccolte da Robertini. Nemmeno l’abbandono subito dalla Fiat all’inizio degli anni 80 (dovuto, oltre che alla crisi del settore, alle politiche liberiste del regime dei militari che aprono il mercato alla penetrazione americana e giapponese) sembra avere scalfito la riconoscenza degli ex dipendenti e la nostalgia per quegli anni “dorati”. Ancora oggi, malgrado tutti sappiano ormai la verità sugli orrori commessi dai militari, dai racconti emergono velate giustificazioni (il caos provocato dagli “altri”, dai sovversivi, doveva essere fermato), reticenze, silenzi o vere e proprie denegazioni, come il mito secondo cui due operai fatti sparire “per errore” (non avevano alcun legame con la guerriglia) sarebbero ancora vivi ma trasferiti in qualche altra città. Insomma questo libro, pur partendo da un altro punto di vista, conferma l’ambiguità radicale del peronismo, mostrandocene la faccia più reazionaria (laddove quello di Morlacchi offriva scorci della variante socialista). Ma soprattutto smonta la tesi secondo cui la fabbrica fordista sarebbe di per sé l’ambiente ideale per lo sviluppo dell’autonomia e dell’antagonismo di classe.

Add comment

Submit